Abbozzo in prosa dell’Inno ai Patriarchi

Da wikileopardi.

                                      Inno
                                ai Patriarchi
                                        o
                    de’ principii del genere umano
                            Canzone Nona.


    E voi, primi parenti di prole sfortunatissima, avrete il mio carme; voi molto meno infelici. Perocchè alla pietà del Creatore
certamente non piacque che la morte fosse all’uomo assai migliore della vita, o che la condizione della vita nostra fosse
tanto peggior di quella di ciascuno degli animali e degli altri esseri che ci sottomise in questa terra. E sebbene la fama
ricorda un antico vostro fallo cagione delle nostre calamità, pur la clemenza divina non vi tolse che la vita non fosse un bene;
e maggiori assai furono i falli de’ vostri nepoti, e i falli nostri che ci ridussero in quest’ultimo termine d’infelicità.
    Ad Adamo. Tu primo contempli la purpurea luce del sole, e la volta dei cieli, e le bellezze di questa terra. Descrizione
dello stato di solitudine in cui si trovava allora il mondo non abitato per anche dagli uomini, e solamente da pochi animali.
Il torrente scendeva inudito dalla sua rupe, ed empieva le valli d’un suono che nessun orecchio riceveva. L’eco non lo
ripeteva che al vento. L’erbe de’ prati erano intatte da’ piedi de’ viventi: le frutta pendevano senza che la loro vista allettasse
alcuno a cibarsene, e, immagine della futura nostra caducità, si rotolavano già mature appiè dell’albero che le aveva prodotte.
Le foglie stormivano ec. ec. i fonti ec. ec. Il tuono non atterriva ec. il lampo, la pioggia ec. Si procuri di destare un’idea vasta
e infinita di questa solitudine, simile a quella ch’io concepiva scrivendo l’Inno a Nettuno, e descrivendo la scesa di Rea
nella terra inabitata per darvi alla luce quel Dio.
    Quante sventure, o misero padre, quanti casi infelicissimi, quante vicende, quanti affanni, quante colpe aspetta vano
la tua sventurata progenie! Che orribile e dolorosa storia incominci! Tu non credi che quegli altri progenitori ai quali imponi
i loro nomi, debbano essere tanto più fortunati nella loro prole: che i tuoi figli debbano invidiare alla vita delle mute piante, de’ tronchi inerti ec.
    Eva, Donne, Bellezza, suo impero, sua corruzione.
    Caino. Ingresso della morte nel mondo. La società figlia del peccato, e della violazione delle leggi naturali, poichè la Scrittura
dice che Caino, vagabondo e ramingo per li rimorsi della coscienza, e fuggendo la vendetta e portando seco la maledizione
di Dio fu il primo fondatore della città.
    Set, cioè consolatore. Vizi del genere umano, e sua corrutela avanti il Diluvio.
    A Noè. Tu salvi la nostra empia e misera stirpe dalla guerra e vittoria degli elementi. La salvi, e non per questo ella ne
diviene migliore, nè rinnovandosi è meno empia e sventurata di prima: anzi le calamità e le scelleraggini della seconda,
superano quelle della generazione distrutta. Corvo, e colomba col suo ramo d’ulivo. Arco baleno.
    Torre di Babele. Nembrod, principio della tirannia. Confusione delle lingue, e principio delle nazioni. Diffusione del genere
umano per la terra. Il nostro globo s’empie tutto di sventure e di delitti. Noi le insegnamo a terre vergini, le quali
per la prima volta sentono l’influenza dell’uomo, e con ciò solo divengono consapevoli del male e del dolore, cose
fin qui sconosciute e non esistenti per loro. In proposito dell’arca di Noè, de’ suoi avanzi che al tempo d’Eusebio si mostravano
ancora, dic’egli, sui monti d’Arabia ec. si potrà fare una digressione sulla nautica, sul commercio, sull’usurpato regno del mare,
sui morbi, sulle calamità derivate da queste cagioni.
    Abramo. Vita pastorale de’ Patriarchi. Qui l’inno può prendere un tuono amabile, semplice, d’immaginazione ridente e placida,
com’è quello degl’inni di Callimaco. Che dirò io di te, o padre? Forse quando sul mezzogiorno, sedendo sulla porta solitaria
della tua casa, nella valle di Mambre sonante del muggito de’ tuoi armenti, t’apparvero i tre pellegrini ec? O quando ec?
Rebecca scelta per isposa d’Isacco nel cavar l’acqua all’uso delle fanciulle orientali; presso al pozzo ec. Matrimoni di que’ tempi.
Avventure di Giacobbe, massime nella giovanezza.
    A me si rallegra e si dilata il core, o ch’io ti rimembri sedente ec. o che ec. ec.
    Iddio, o per se, o ne’ suoi Angeli, non isdegnava ne’ principii del mondo di manifestarsi agli uomini, e di conversare
in questa terra colla nostra specie. Era lo spirito di Dio nel vento, e nel fuoco ec. V. quel che la Scrittura dice d’un’apparizione
di Dio ad Elia in spiritu aurae lenis: e quella a Mosè nel roveto ardente senza consumarsi. I nostri padri lo sentivano come
a passeggiare a diporto sul vespro ec. (Genesi) E parlava loro: e la sua voce usciva dalle rupi, e da’ torrenti ec. Le nubi, le nebbie,
le piante erano abitate dagli Angeli che di tratto in tratto si manifestavano agli occhi umani. Le spelonche ec.
(Apparizione di S. Michele sul monte Gargano, e quella a Gedeone ec.) Ma cresciute le colpe e l’infelicità degli uomini, tacque
la voce viva di Dio, e il suo sembiante si nascose agli occhi nostri, e la terra cessò di sentire i suoi piedi immortali,
e la sua conversazione cogli uomini fu troncata. V. Catullo nel principio del poema de Nuptiis etc. Tutto ciò si potrà dire
in proposito delle apparizioni ad Abramo. Sodoma, Lot, ec.
    E in proposito della vita pastorale de’ Patriarchi, considerata specialmente e descritta in quel|la di Abramo, Isacco,
Giacobbe, si farà questa digressione o conversione lirica. Fu certo fu, e non è sogno, nè favola, nè invenzione di poeti,
nè menzogna di storie o di tradizioni, un’età d’oro pel genere umano. Corse agli uomini un aureo secolo, come aurea corre
e correrà sempre l’età di tutti gli altri viventi, e di tutto il resto della natura. Non già che i fiumi corressero mai di latte, nè che ec.
V. la 4 egloga di Virgilio, e la chiusa del prim’atto dell’Aminta, e del quarto del Pastor fido. Ma s’ignorarono le sventure che ignorate
non sono tali ec. ec. E tanto è miser l’uom quant’ei si reputa: Sannazzaro.
    Tale anche oggidì nelle Californie selve, e nelle rupi, e fra’ torrenti ec. vive una gente ignara del nome di civiltà, e restia
(come osservano i viaggiatori) sopra qualunque altra a quella misera corruzione che noi chiamiamo coltura.
Gente felice a cui le radici e l’erbe e gli animali raggiunti col corso, e domi non da altro che dal proprio braccio, son cibo, e l’acqua
de’ torrenti bevanda, e tetto gli alberi e le spelonche contro le piogge e gli uragani e le tempeste. Dall’alto delle loro montagne
contemplano liberamente senza nè desiderii nè timori la volta e l’ampiezza de’ cieli, e l’aperta campagna non ingombra di città nè di torri ec.
Odono senza impedimento il vasto suono de’ fiumi, e l’eco delle valli, e il canto degli uccelli, liberi e scarichi e padroni della terra
e dell’aria al par di loro. I loro corpi sono robustissimi. Ignorano i morbi, funesta dote della civiltà. Veggono la morte (o piuttosto le morti),
ma non la preveggono. La tempesta li turba per un momento: la fuggono negli antri: la calma che ritorna, li racconsola e rallegra.
La gioventù è robusta e lieta; la vecchiezza riposata e non dolorosa. L’occhio loro è allegro e vivace (lo notano espressamente i viaggiatori):
non alberga fra loro nè tristezza nè noia. L’uniformità della vita loro non gli attedia: tante risorse ha la natura in se stessa, s’ella fosse ubbidita e seguíta.
    Perchè invidiamo noi loro la felicità di cui godono, che non hanno conquistata coi delitti, non mantengono coll’infelicità e oppressione de’ loro simili,
che fu donata loro gratuitamente dalla natura, madre comune; a cui hanno pieno diritto in virtù non solo dell’innocenza loro, ma della medesima esistenza?
Che gran bene, che gran felicità, che grandi virtù partorisce questa civiltà della quale vogliamo farli partecipi, della quale ci doliamo che non siano a parte?
Siamo noi sì felici che dobbiamo compatire allo stato loro, s’è diverso dal nostro? o perchè abbiamo perduta per nostra colpa la felicità destinata
a noi nè più nè meno dalla natura, saremo noi così barbari che la vorremo torre anche a quelli che la conservano, e farli partecipi delle nostre conosciute
e troppo sperimentate miserie? Che diritto n’abbiamo? E qual cura, qual erinni ci spinge e ci sollecita a scacciare la felicità da tutto il genere umano,
a snidarla dagli ultimi suoi recessi, da quei piccoli avanzi del nostro seme, ai quali ell’è ancora concessa: a scancellare insomma per sempre il nome
di felicità umana? Non basta alla nostra ragione d’averla perseguitata ed estinta in eterno in così gran parte della stirpe nostra? ec. ec.
    (I Missionarii sono occupatissimi presentemente a civilizzare la California. Non vi riescono da gran tempo. Adoprano la forza, e costringono i Californi a radunarsi,
non so se ogni giorno, o in certi tali giorni, a far certe preghiere ec. Alcuni ne tengono presso di loro, e proccurano d’istruirli e civilizzarli.
Ma questi dimagrano in breve visibilmente, perdono il colore, l’occhio diviene smorto, ed alla prima occasione rifuggono ai boschi e alle montagne, dove ritornano
sani e giocondi. Non credo che abbiano alcuna lingua, se non di gesti, o poco più).
    Con questa digressione si potrà molto bene conchiudere. Volendo seguitare, si potrà dir di Giuseppe, delle sue avventure ec. Ultimo de’ patriarchi nati pastori,
entra finalmente nelle Corti. Finisce la vita pastorale: incomincia la cortigiana e cittadinesca: nasce la fame dell’oro, la sfrenata e ingiusta ambizione ec. ec.
e d’indi in poi la storia dell’uomo è una serie di delitti, e di meritate infelicità.